MA DOVE VAI?


 

MILANO, CERTOSA DI GAREGNANO

TRA LE NEFANDEZZE DI ENRICO VIII




Sopra: Carlo Porta al Verziere



    

Con la coda dell’occhio arrivando a Milano dalle autostrade MiTo e dei Laghi si intravvedono i rassicuranti cotti della spigolosa sagoma  di Santa Maria Assunta che annuncia la Certosa di Garegnano “elevata a pianura” e cara al “vagamondo” Petrarca in cerca di silenzio e concentrazione – aveva preso i voti minori e il fratello Gherardo apparteneva all’ordine contemplativo soppresso poi dal radicale imperatore  Giuseppe II -   ma ancor più coccolata dai Robin Hood locali che nel Quattro e Cinquecento depredavano i certosini viandanti nel vicino bosco della Merlata – dove l’imperatore Filippo IV di Spagna fece nel 1634 una memorabile battuta di caccia - e razziavano con determinazione e costanza impadronendosi di oro e preziosi il complesso voluto da Giovanni Visconti.



Sorprende nell’anonima periferia milanese – l’attuale food-city di osti camerieri e affittacamere in crisi covidica resta comunque di episodica bellezza monumentale - trovare un’oasi di tranquillità  che negli interni affrescati con esagerata dovizia timbrica e tonale ipnotizza anche gli occhi più critici e malandrini. Che mobili devono essere per spaziare, ormai attraversato lo scenografico vestibolo ellittico che anticipa la modesta facciata poco plastica,  sul soffitto della navata centrale dove tra arcate e lesene  storie certosine fanno onore  da cima a fondo   e con esuberanza  all’ordine religioso. Festosità  tiepolesche dipinte da allievi di Tiziano   e maestri del Caravaggio (in primis Simone Peterzano nel tiburio, abside e presbiterio). Affreschi anche di Daniele Crespi sui toni gialli e viola e accostamenti stridenti che  tra cieli e panneggi scenici dicono di rosari misteriosi e di  tradimenti di cui vittima fu anche San Bruno, fondatore dei certosini. L’occhio invece cade  in basso nelle cappelle laterali imprigionato dai paliotti eleganti attribuiti al Solari. 


Il tripudio cromatico esasperato del Nuvolone e del Bellotto ovunque generato è inaspettato in una chiesa del milanese, territorio  in genere sobrio austero e lontano dal barocco, e un po’ richiama d’acchito gli interni ortodossi dei monasteri serbi e kosovari dove non c’è un centimetro spoglio. E’ presuntuosamente chiamata, la volta, la Cappella Sistina di Milano ma si risolve sempre in superficie. Di contrappunto invece stanno  gli affreschi tricromi, lineari e diafani sui toni velati dei bruni, dei rosa e del verde-salvia del salone  capitolare,  come le due tele di impronta fiamminga  giustapposte e galleggianti nella seconda cappella di destra, cui si accede dalla prima,  che valgono la visita e, oggi,  il deconfinamento. Stregarono anche sia lord Byron che Stendhal. Raccontano in un barocco dimesso dell’eccidio e dell’impiccagione di alcuni certosini consumati nell’aprile del 1534 a Londra per decisione di Enrico VIII, proprio quello anticattolico, “fedigrafo e concubino” che ebbe la fortuna di godere di un imprevisto harem. Diciotto furono i monaci che dopo lo scisma della chiesa anglicana da quella romana furono giustiziati e massacrati per volontà del re e 12 furono orrendamente torturati pure a Roermond in Olanda nel 1572.




“Fino alla soppressione solo i certosini potevano godere del composito estro artistico espresso nella chiesa” dice padre Stefano “oggi invece sono a disposizione del mondo ma soprattutto delle settemila anime che orbitano intorno alla parrocchia. Io dall’altare invece resto sempre incuriosito dagli affreschi, pur slavati e indecisi, dell’abside perché anche se in teoria dovrebbero iconograficamente illustrare i boschi della Terra Santa ricordano e sicuramente si ispirarono ai  boschi cedui della Merlata, dal verde dei dintorni insomma”. Boschi inghiottiti dal tempo come il chiostro grande distrutto dai lavori per l’imbocco autostradale. Quello dell’elemosina sopravvive silente.

INFO

certosadimilano.com

ARRIVARE

Da piazza del  Duomo/Via Orefici tram 14

Andrea Battaglini

 



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